mercoledì 10 aprile 2013

DL

di Luca Milaniex studente di cinema campano, trapiantato nella città delle due torri.

Russia, Terza Guerra Mondiale.
Mi trovavo al confine con la Finlandia, dopo aver disertato, inseguito da nemici che volevano uccidermi per la mia nazionalità, inseguito da compatrioti che volevano il mio sangue per restituirlo a quella che chiamano “la nostra terra”. Correndo verso la salvezza, in una nazione ancora neutrale, che sembrava irraggiungibile.
Erano mesi che io e lei, la ragazza con la quale avevo lasciato la trincea, scappavamo dal nostro destino, abbagliati dalla luce di un futuro pacifico.
 Erano mesi che io e lei, la ragazza che avrei voluto proteggere e che voleva proteggermi, scappavamo verso la libertà di essere, la libertà che le altre persone non capiscono di aver perso, anzi, l’hanno gettata.
Ma per quanto gridassimo non saremmo mai riusciti mai a far cambiare idea a tutta quella gente, esaltata dal pensiero di star dando la vita al loro paese, invece che ad un conflitto senza ragione.
Provo una grande rabbia ogni volta che ci penso, ma comunque non posso farci nulla.
Almeno, pensavamo a noi, alla nostra vita, visto che qualsiasi altra cosa avessimo prima, ce l’hanno portata via o l’esercito, arruolandoci di forza, o i bombardamenti che hanno distrutto le nostre città.
Lei mi parlò, dicendo che se fossimo riusciti a passare la frontiera a pochi chilometri da noi avremmo potuto dire addio alla paura, almeno per un po’. Disse che, anche se avessimo vissuto di stenti, alla fine ne saremmo usciti vivi, ed io le credevo, credevo veramente al freddo blu di quei suoi occhi.
Le risposi che sicuramente aveva ragione. Ma non riuscii ad aggiungere altro, frenato dal freddo, che mi congelava la bocca ogni volta che l’aprivo, sia per parlare, sia per respirare, sia per mangiare, sia per qualsiasi altra cosa.
Riprendemmo a camminare, vicini, mano nella mano, per farci un po’ di caldo a vicenda, per contrastare il freddo pungente, portato dall’impietoso vento, rafforzato dall'opprimente neve in cui sprofondavamo ad ogni passo.
Non parlavamo molto, ma ci capiamo lo stesso. In quei mesi passati a fuggire c’eravamo conosciuti meglio di quanto non avessimo mai fatto nell’esercito, “compagni” d’armi per “una giusta causa”.
Nonostante le trincee fossero calde, nonostante ci dessero sempre da mangiare, nonostante ci ripetessero che i nostri sforzi sarebbero stati ripagati, preferivo di gran lunga essere lì, in quella distesa bianca, spezzata solo dalle impronte che lasciavamo dietro di noi, confinata all’orizzonte, che ci illudeva con la sua vegetazione, i suoi sempreverdi, coperti di neve bianca, le sue bacche rosse, coperti dal bianco della neve.
Lì, noi due soli, senza nessuno che ci desse ordini che aveva ricevuto da altri che li avevano ricevuti da altri a loro volta, senza nessuno che ci puntasse addosso armi da fuoco di qualsiasi tipo, senza che nessuno ci obbligasse a sparare, sia da un lato che dall’altro, con la scusa della chiamata della patria, mentre noi volevamo solo vivere, in pace possibilmente. Ma questa possibilità, purtroppo, c’era negata.
Per riprendercela, questo è il motivo scatenante, che ci ha fatto mettere d’accordo, un’occhiata ed entrambi lasciammo la trincea.
Per riprendercela, questo è il motivo per cui strisciavamo nella neve, senza nulla da mangiare, nutrendoci di una vana speranza.
E mentre ci poggiavamo l’un l’altra, mentre stringevamo le nostre mani, non so bene in che istante, ma realizzai che un altro motivo s’era aggiunto, in quel cammino. Desideravo stare con lei, ero felice, nonostante quello che dovevamo sopportare. Ma, quando provavo a dirlo, qualcosa mi strozzava le parole in gola, e non era il freddo.
E mentre riflettevo su questo, la vedemmo: un'auto, lasciata incustodita. Almeno, così sembrava.
Ci guardammo negli occhi, le dissi che potevamo passare la frontiera con quella, o almeno potevamo raggiungerla, avremmo risparmiato ore. Annuì col capo, sorridendo malinconicamente.
Quindi ci avvicinammo alla macchina, salimmo, non ci fu nemmeno bisogno di collegare i fusibili, c’erano le chiavi vicino, partimmo subito. Viaggiammo senza problemi, e riuscimmo pure a trovare un paio di negozi abbandonati da cui prendere della benzina, per avere sempre il serbatoio pieno.

Ora, tutto è diverso. L'auto esplosa e ribaltata a pochi passi da noi, stiamo sparando per proteggere il nostro sogno, per proteggere le nostre vite, per proteggere ognuno quella dell’altro.

Ma non ce la faremo mai.
Ora, sparando all’impazzata, uccidendo uomini che ci vogliono morti, capisco quello a cui questa fottuta guerra ci ha ridotto: non siamo altro che proiettili.
Ma nonostante questo, nonostante il momento in cui mi trovo, nonostante stia uccidendo delle persone, non riesco a far altro che pensare a te, che sei al mio fianco. Vorrei farti capire… vorrei proprio farti capire quello che provo per te, almeno prima di morire, e se non ci riuscissi continuerei a provarci da morto, giorno dopo giorno, notte dopo notte, quando i nostri corpi senza vita diventeranno freddi, e vi si poserà sopra la neve, passando attraverso la nostra anima immortale, i nostri spettri, che saranno legate a questo mondo, per sempre, e sempre, dal rancore.
Inevitabilmente riescono a colpirmi, siamo stati fortunati a sopravvivere fino ad ora. Ma non voglio finire così… mi piacerebbe finire con te i miei giorni, ma… sotto una raffica di proiettili? Non credo di essere pronto…

No, non è vero. Lo sono, invece.

È la fine ideale per due come noi, sotto una pioggia di proiettili, cercando di esprimere il nostro attaccamento alla vita.
Oramai, guardando il sangue rosso e caldo mangiare la neve e spezzarne il candore e la purezza, capisco. Non c’è più speranza.
E, quasi per togliermi ogni ombra di dubbio, si scaricano le nostre armi, insieme.
Ci scaricano una valanga di proiettili addosso, ed il sangue che prima macchiava la neve ora l’investe, diventa una pozza, che dal basso ci richiama, impietosa.
Chiede anche i nostri corpi, le nostre vite. E quando i colpi cessano, cadiamo, cedendo al richiamo della pozza di sangue.
E mentre la pozza di sangue ci chiama, allungo la mano alla tua, e tu fai lo stesso.
E mentre la pozza di sangue ci reclama, cerco il tuo sguardo, i tuoi occhi.
E quando la pozza di sangue finalmente riceve i nostri corpi, incontro il tuo sguardo, i tuoi occhi.
E, nella pozza di sangue, mie rendo conto che abbiamo gli stessi occhi, occhi che vorrebbero trasmettere amore.
Quel tipo d’amore mai rivelato.

È questo quello che io intendo. Ora, e per sempre.




                         Liberamente ispirato alla canzone “Demolition Lovers”, dei My Chemical Romance

Nessun commento:

Posta un commento