giovedì 18 aprile 2013

Produzione e consumo di cibo: un quadro generale

di Gaia Matteucci, umbra, laureata in Scienze Internazionali all'Università di Torino con una tesi sul Km zero.

I modelli di produzione e consumo di cibo sono stati interessati negli ultimi decenni da profondi cambiamenti, come effetto del complesso processo di riorganizzazione che ha interessato l'intero sistema agroalimentare. I processi di modernizzazione e globalizzazione dei sistemi produttivi e degli scambi commerciali, che nel settore agricolo si sono espressi principalmente nel modello di produzione agro-industriale massificato e standardizzato, e i cambiamenti delle modalità di organizzazione del lavoro e della società, hanno favorito la crescita di un sistema regolatore che tende pian piano a diventare predominante. In tale sistema, la produzione ed il consumo di cibo sono sempre più scollegati tra loro, sia nel tempo che nello spazio. Allo stesso modo la produzione agricola stessa è decontestualizzata: viene separata dalle specificità degli ecosistemi locali e dalle collettività regionali. I luoghi di produzione e di consumo, intesi come località specifiche, così come la loro interazione, non hanno più rilevanza.




La produzione agricola, spostata dagli ecosistemi locali di origine, diviene sempre più spesso il frutto di una sovrapposizione di fattori di crescita artificiali a quelli naturali. Il cibo non è più prodotto e trasformato, bensì costruito, progettato, perdendo così la sua identità. Il capitale industriale ha cercato di creare le condizioni affinché la produzione agricola ed alimentare potessero essere più indipendenti rispetto ai processi biologici; ciò ha fatto sì che i fattori biologici e naturali finissero per rappresentare una porzione decrescente dei fattori produttivi, in favore di quelli controllabili dall'uomo. Questa strategia è stata attuata attraverso l'alterazione dei processi biologici con espedienti tecnologici nella coltivazione, valorizzando i prodotti agricoli ottenuti dall'azienda agricola con fattori produttivi di tipo tecnologico. In altre parole, come negli altri settori dell'economia globale, fa capolino anche nell'agroalimentare il cosiddetto outsourcing, ovvero il ricorso a risorse di vario tipo esterne all'azienda in cui avviene la produzione principale (l'acquisto delle sementi, dei mangimi, dei fertilizzanti chimici, dei pesticidi, l'imballaggio ed il confezionamento, …) alimentando la crescita di un indotto di aziende e di settori esterni all'azienda agricola che si sostengono e influenzano a vicenda. Ciò che ha reso possibile questo, è stato anche il crescente ricorso alle biotecnologie e all'ingegneria genetica, che hanno manipolato le sementi ed i geni degli animali al fine di ottenere dei prodotti maggiormente funzionali alle dinamiche produttive ed ai gusti di un mercato globale.
Tutto ciò favorisce la crescita di filiere lunghe  in grado di connettere produzione e consumo su scala anche molto ampia, governate da strategie commerciali quali la costanza delle caratteristiche merceologiche, ampia varietà e destagionalizzazione dell'offerta e del consumo, ampie campagne pubblicitarie, la cui attuazione ha implicato una standardizzazione e un distacco dai territori nella logica dei processi produttivi. Le catene produttive sono così orchestrate da pochi macro-attori economici (quasi sempre multinazionali) situati in pochi centri di potere lontani dai luoghi di produzione.
Le criticità e gli effetti negativi derivanti da questi processi evolutivi, sono divenuti oggetto di intenso dibattito:
·         sono espressione di tale situazione la perdita di potere decisionale e la riduzione dei redditi di molti degli agricoltori all'interno delle filiere lunghe, come anche le difficoltà di accesso al mercato da parte delle aziende di ridotte dimensioni o con produzioni non rispondenti agli standard richiesti. L'agricoltore diventa quindi un mero “coltivatore”, cioè fornisce la forza-lavoro e spesso parte del capitale, ma non entra mai in possesso del prodotto e resta escluso dalle decisioni di rilievo. Ai contadini inoltre è sottratto addirittura il loro stesso sapere o il diritto di coltivare da sé specie vegetali locali che quella stessa comunità coltiva da secoli: i brevetti concessi dai governi ad aziende o a gruppi di aziende sono il miglior esempio possibile al riguardo.
·         l'elevato impatto ambientale dovuto ai metodi produttivi intensivi e fortemente industrializzati, all’uso di pesticidi e fertilizzanti, alle modalità di commercializzazione, alle grandi distanze interposte tra sistemi produttivi e consumo e la connessa emissione di grandi quantitativi di CO2 per il trasporto dei prodotti e la loro commercializzazione per assicurare un'offerta facilmente accessibile e costante. Non a caso il sistema agroalimentare è tra le principali cause del riscaldamento globale immettendo in atmosfera tra il 44 e il 57% delle emissioni globali di gas clima alteranti;
·         l'industrializzazione, l'artificializzazione e la standardizzazione degli alimenti, l'impoverimento delle loro qualità organolettiche e nutrizionali a causa dell’aggiunta di additivi per garantire la conservazione dei prodotti;
·         l'incremento delle patologie legate a modelli e pratiche alimentari non adeguate, in un sistema alimentare sostanzialmente guidato da logiche di mercato;
·         la separazione sociale, culturale, geografica della produzione di alimenti dal loro consumo, con conseguente perdita da parte dei consumatori di conoscenza, di cultura alimentare, di abilità gastronomiche e di possibilità di controllo diretto.
Accanto a questi processi e anche in relazione e reazione agli effetti negativi che ne sono derivati, nel corso degli ultimi due decenni hanno cominciato a diffondersi strategie alternative di diversificazione e ri-territorializzazione dei sistemi di produzione e consumo, volte cioè a ricreare il legame tra produzione e risorse naturali, culturali e sociali del territorio di appartenenza e su questa base tra sistemi produttivi ri-territorializzati e consumo.
Le esperienze di ri-localizzazione comprendono una varietà di iniziative - la vendita diretta in azienda comprese le forme di coinvolgimento diretto dei consumatori nelle pratiche produttive, in particolare nella raccolta, i mercati contadini, i gruppi di acquisto, i box schemes, i bio-distretti, le esperienze di agricoltura supportate dalle comunità locali, negozi specializzati, gli orti urbani … - e possono veder coinvolti nella loro promozione e attivazione una molteplicità di soggetti, quali agricoltori e gruppi di cittadini-consumatori, organizzazioni ambientaliste, associazioni culturali, amministrazioni pubbliche locali.
L'importanza rivestita da queste esperienze  nella diversità di forme e significati assunta, va ben al di là della loro spesso contenuta dimensione economica e risiede nel loro intrinseco potenziale innovativo. Esse sono espressione della ricerca/creazione di nuove modalità di interazione attorno alla produzione e al consumo di cibo, le quali coinvolgono i soggetti interessati in una gamma di valori, principi e finalità più ampia rispetto agli obiettivi puramente economici, in risposta ad istanze di carattere etico e culturale e, ad un rinnovato interesse nei confronti dei territori di appartenenza.

2 commenti:

  1. Mi chiedo se questi espedienti tecnologici siano stati intrapresi per far fronte ad una richiesta sempre crescente di cibo, complice il continuo aumento della popolazione, o se al contrario sia solo un espediente per concentrare il più grande business planetario (tutti dobbiamo mangiare)nelle mani di poche multinazionali. D'altro canto però bisogna ammettere che per quanto le esperienze di ri-localizzazione siano encomiabili e di vitale importanza per la ricerca di nuove modalità di produzione e consumo ma soprattutto sono espressione di una nuova visione etica e culturale, probabilmente, non sono sostenibili. In particolare penso a città come Shanghai,Istanbul ecc... Come evitare tecnologicizzazione ed industrializzazione in città con decine di milioni di abitanti?

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  2. credo la seconda. basta ricordare che a Luglio 2012 la Corte di Giustizia Europea, in risposta ad una controversia tra due imprese francesi, ha vietato la commercializzazione di semi non registrati nel catalogo ufficiale europeo mettendo di fatto fuori legge pratiche millenarie e agevolando così le grandi industrie sementiere come la Monsanto e la Bayer, che controllano anche il mercato dei pesticidi. ovviamente le pratiche di ri-localizzazione non sono ancora sostenibili se non accompagnate da politiche pubbliche mirate. in uno dei prossimi articoli parlerò di un esempio virtuoso di progetto di gruppi di acquisto accompagnato dalla provincia di Torino. in una "piccola" città come Torino ha funzionato. nel piccolo dei suoi numeri e della sua esperienza potrebbe esser un esempio da riproporre anche a scale più grandi.

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